Il cappellino lo riconosco. È uno di quelli che Jovanotti ha
donato alla Caritas a inizio anni ’90 durante un cambio di stagione o di genere. Da Claudio Ceccheto
alla Chiesa di Che Guevara, che tanto, da queste parti, nessuno sa chi siano e l'unica Chiesa nei dintorni la usiamo noi per il Presidio. Il nuovo proprietario del cappellino si chiama Gheorghe, viene dai Carpazi e
porta la visiera correttamente sul davanti per ripararsi dai 35 gradi in aprile delle serre dei Macconi (questo è l’ombelico del mondo e noi che non
sappiamo ballare, ci versiamo dentro un po’ di te liofilizzato, ogni martedì pomeriggio).
Pochi centimetri più in basso della visiera, sotto il tetto
spiovente di due sopracciglia foltissime, Gheorge ha due occhi del colore ai
bordi di certe maioliche di Bretagna. O delle piastrelle della cucina di una casa
a Donnalucata che mio nonno vendette troppo presto e che a voi non direbbero
niente. E sono due veri peccati.
Quando Ghoerghe mi chiede di uscire fuori, a due passi dal
lungo mare e dal poco altro della sede di Presidio, penso mi voglia raccontare la solita storia
di giornate non pagate, di lavoro in nero, di dolori alla bocca dello stomaco.
Mi dice, invece, che la notte non dorme per comporre canzoni
(la percentuale di insonni creativi è un affronto per noi che la prima volta in cui Morfeo
ci prese tra le braccia, gli afferrammo una mano e ci accordammo in un patto,
fingendo di credere che serva a dilazionare, in pigiama mimetico, scadenze da tenere lontane). Gheorghe, invece, non dorme. Non dorme e compone canzoni.
"In italiano" mi dice come fosse la cosa più naturale del mondo.
"Non ci credo" lo sfido.
“Accendi il telefonino” raccoglie e rilancia.
Il mio:“Sono pronto” lo inquadra nei millemila pixel dello smartphone.
Ghoerghe canta con l’espressione che hanno certi imitatori
scarsi di Celentano e con le mani dirige un’orchestra immaginaria, appoggiandosi
a una melodia uniforme e fasulla da antifona al Magnificat (e l’ora, in
effetti, è quella dei Vespri).
Nella canzone c’è una donna che prepara il caffè, un mare in cui si tuffano due
fratelli e da cui ne emerge solo uno, una tavola
apparecchiata, un posto vuoto e bambini che si curvano su di esso, come punti interrogativi. Conosco gente che con roba così ci ha vinto
Sanremo e da qualche parte, dietro a noi, una serra coi fiori ci sarà sicuramente.
Ghoerghe si interrompe all’improvviso distogliendo gli occhi dalla camera per guardarsi a fianco, come se
un fulmine avesse incenerito il secondo violino, in un fuoco di artificio di archetti
in fiamme e fili che si aggrovigliano. Poi dice un “Basta” che non capisco se è
una supplica per la sua commozione che viene dall’abitudine a pubblici vegetali,
o se è una risposta a un malumore, come di chi ha dato troppo a un loggione di
incompetenti.
Ora rivolge il suo sguardo
da carta carbone, da concorrenza sleale, al Mediterraneo e ripete “Basta” allontanandosi con
un passo laterale sull’improvvisato palco del secondo scalino del Presidio.
Intorno a noi, come
sempre, la scena è aperta e io, di necessità, applaudo.
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