Bugiardino

I contenuti di questo blog rispecchiano malamente i pensieri del proprio autore. Quel che vi compare non è necessariamente il pensiero di Caritas Italiana o della Caritas di Ragusa. A cui, comunque, sono grato.

lunedì 16 novembre 2015

Fiori d’arrangio (di magliettine e mogliettine)

Romeo è un blando tifoso del Botosani Fotbal Club (non ridete, preliminare di Europa League fino al secondo turno), ma la sua maglietta nera ha stampato in caratteri rosa una frase complicata e pomposa secondo cui Dio è grande e il Palermo calcio è il suo profeta. Capiterà che si incontreranno, il Palermo Calcio e il Botosani Fotbal Club, in qualche turno agostano di una coppa minore, in un’annata fortunata per entrambe, per un colpo di cabala all'incrocio della vita di Romeo, senza che la sua mente un poco depressa e stanca ne rimanga particolarmente colpita, immersa com'è nelle otto ore di lavoro al giorno per 25 euro e un occhio al gratta e vinci del Chupa Chupa per svoltare davvero, prima o poi.
La maglietta di Alina è di un cotone troppo leggero, anche per un tiepido novembre vissuto a lavorare sotto la plastica e a passeggiare su un lungomare di dune. Alina ha finissimi capelli biondi e un viso da madonnina del quattrocento. Se si inginocchiasse a mani giunte davanti alla croce che campeggia su molte serre, la scritta sulla sua maglietta suonerebbe davvero come una preghiera che implora: “I’M NOT A ESCORT”
Sulle maniche corte di Luminita corre in verticale sul grigio la scritta PERONI, perpendicolare a un sorriso inarrestabile. Sabato Luminita si sposa e ha deciso di fare la lista nozze al Presidio. Vuole un tappeto per terra, un tappeto per il tavolo e un tappeto per il letto. “Un tappeto?” chiedo non molto convinto di aver capito bene, mentre rovisto tra i cenci da suk arabo ammassatisi da migliaia di cambi d’armadio, in cerca di qualcosa di salvabile.
“Tu sei uomo, non capisci, chiamami la ragazza”. E la ragazza torna sicura dal magazzino (che poi è una cucina) con un copri tavolo di merletti bianchi ricamati a mano, un copriletto di panno pesante dai colori scuri e un incredibile tappeto (ah – ah) di pelo folto color arancione, vestigia di un raid in India di qualche Renault 4 e che piace, incredibilmente, tantissimo e certifica irrefutabilmente che sono un uomo e non capisco. Arrivano pure gli invitati e vogliono scarpe eleganti per la cerimonia. Stanno lì tutti insieme, sposa e ospiti, senza l’ipocrisia di fingere benessere gli uni agli altri, contenti di mostrarsi finti per un giorno soltanto, obbedendo al codice di una festa, come un carnevale ulteriore.
Alì è indubitabilmente maomettano, ma ha il fisico e il viso di un Buddha a cui si è fulminata l’illuminazione. Non riesco a trovare una maglietta della sua misura: “Mi dispiace Alì, non ho niente per te”.
La sua faccia senza sorriso si rivolge a Dario, assediato all’angolo del Presidio da richieste che necessiterebbero, più che studi di giurisprudenza, entrature in paradiso: buste paga da recuperare, consulenti recalcitranti, anticipi che non fanno mai uno stipendio, notizie sul rinnovo dei permessi di soggiorno come dispacci da un mondo sotto a un diluvio. 
Alì vuole sapere da Dario se può dichiarare di essere residente al Presidio. “No - mi intrometto io - il Presidio non è un’abitazione, mi dispiace".
Nella stanza della lista nozze c’è grande eccitazione. Si scopre che una delle volontarie della parrocchia aveva un negozio di abiti da sposa e diverse giacenze in magazzino. Si sta organizzando una prova vestito per il pomeriggio successivo, si celebra il trionfo della femminilità. Sarà una bella festa.
Alì adesso prova a fare da mediatore per un connazionale che non parla italiano.
“Non può rinnovare il permesso se prima non trova il lavoro” prova a convincerlo Dario. E siccome ci guarda come se avessimo un conto in sospeso con lui, giungo a rinforzo: “Lo so che è un bravo ragazzo, ma la legge è questa”.
Alì mi guarda con grande stanchezza, la maglietta sformata che non è riuscito a cambiare sembra unta di terra: “Ma non puoi stare zitto, tu? Non sei l’avvocato e la tua borsa è solo piena di no.”
Ci resto male solo inizialmente, giusto il tempo di scendere dal piedistallo costruito con le ore di straordinario non pagato, i rientri a notte fonda, le albe color zafferano, i corsi di formazione in giro per l'Italia, insomma il mio modesto podio da cui additare a tutti l'ingratitudine del mondo. Scendo, dicevo, e mi ridico che noi operatori sociali siamo come irriducibili Bocchedirosa che lo fanno per passione. Dico ad Alì di aspettare, che chiederò alle volontarie, che sono più brave di me, di cercare ancora e meglio una maglietta pulita della sua misura. Chissà se qualcuna delle donne al suk arabo che poi è un magazzino che poi è una cucina trova anche per me una una maglietta con su la scritta: "I'M NOT A ESCORT"

giovedì 1 ottobre 2015

Una giornata al mare


L’ultima volta che abbiamo visto Alina era un punto interrogativo in una pancia grande otto mesi. Ottanta giorni dopo Alina ha l’età di una Luna piena, pochi capelli e la stessa bocca della mamma. È la prima persona a mettere il suo minuscolo piede al Presidio di Marina di Acate per la nuova stagione.

Valentino, invece, ha sette anni e i capelli tagliati lunghi come Chris Waddle a Italia ’90. Gioca con il pupazzetto di un super eroe con quattro braccia. Servono per lottare.  Un braccio per ogni biglietto da 10 euro che il tassista abusivo chiede al padre per accompagnarlo a scuola una mattina sì e una no. 

Le due bambine che guardano la mamma e il pavimento e sorridono non hanno nome. Non capiscono quando chiediamo loro: “Come ti chiami?”, ma tra un mese saranno bravissime e parleranno con noi al posto di qualche connazionale dallo sguardo sperduto, come di chi si è addormentato sui Carpazi e si è svegliato in riva al Mediterraneo.

Samir si è rannicchiato stretto nel vano ruota di un tir, mentre vedeva un nastro d’asfalto sfilare al di sotto di lui a 80 chilometri orari e poi il ponte di una nave, dalla Grecia fino in Italia. “Qualche volta può capitare che la ruota sale e allora non c’è niente da fare, fratello. Ma bisogna rischiare”

Petru è contentissimo e mostra ad Angelo le foto della sua nuova fidanzata tedesca che è una mora alta e bella da far paura.

Alì ha 50 anni e piange davanti al figlio di 18 perché il padrone li ha cacciati dopo sei mesi di promesse a 25 euro al giorno. La nuova squadra lavora per 20 e Alì singhiozza piano, all'aperto, appoggiato al muro in cemento armato: “Questa è la democrazia? Questa è la giustizia?” E lo chiede all’Italia.

Karim è arrivato qui dal Bangladesh. Lo guardano tutti perché da queste parti non siamo abituati a vedere persone con la faccia così nera. Lui non se ne preoccupa e recita a Emiliano nomi di paesi come un rosario di misteri dolorosi: India, Iran, Turchia, Grecia, Croazia, Ungheria, Romania, Austria, Palermo, Macconi. E sono state botte, rapine, segregazione, paure, clandestinità e lavoro nero.

Igor vuole sapere se ha diritto a un risarcimento per la coltellata ricevuta nel giorno della Pasqua ortodossa da un connazionale ubriaco che conosceva appena e ci mostra una impressionante linea di frontiera rosa che si solleva a separare il quadrante destro del suo ventre da quello sinistro.

Tre rumeni senza nome escono dalla stanza di Dario, che poi è una cucina adattata a studio legale. Il padrone non li paga, inizieremo la solita trafila di lettere, ispettorati, contrattazioni.

È già buio quando arriva Cataldo, un siciliano spassoso e folle, innamorato di tutte le donne. Si presenta alle volontarie che non conosce e usa prima il cognome, poi il nome e la città di nascita, come una recluta di 50 anni fa. E non si dimentica di aggiungere: “Fortebraccio mi chiamano” perché sembra veramente che abbia un’anima di fil di ferro sotto i muscoli. Alle ragazze più carine chiede ancora di sapere il nome e le informa del suo nuovo scooter comprato a 500 euro. La prossima volta canterà loro una serenata dal repertorio di un neo melodico napoletano o reciterà quella scena del film di mafia in cui Totò Riina viene chiamato professore dai picciotti perché è l'unico ad aver fatto la terza elementare. Poi Cataldo si scusa perché comincia "L’onore e il rispetto 2" su un qualche canale TV e ci deve lasciare. Ma promette che il prossimo martedì tornerà e noi non ne dubitiamo. Le nostre volontarie sono tutte carine.

Petronilla, invece, non se ne vuole andare e ci racconta per le millesima volta della collega che va a letto col padrone e della moglie che, invece, se la prende con lei, con quella sbagliata e che lei non è una buttana. Ha bisogno di qualcuno che le creda e noi siamo stanchi, ma non è per questo che le crediamo e stiamo ancora un po' ad ascoltarla.

Intanto Alì si è levato via dal viso le lacrime con il pollice e l’indice, Alina continua a dormire in braccio alle volontarie, il padre di Valentino ha saputo che esiste un servizio di scuola bus comunale, Fortebraccio ha informato con una semplice accelerata tutta Marina di Acate del suo nuovo acquisto, Karim controlla la taglia di un paio di jeans da lavoro e Petru ha conservato le foto, ma non il buonumore.

Petronilla ha un sorriso grande come il lungo mare di Macconi quando ci lascia andare e ci dice: “Grazie per quello che facete”

Quello che facciamo (facetiamo?) è Presidio.

Questo post è dedicato all'amico e collega Angelo che è stato promosso a un altro incarico e lascia Presidio. Ci mancheranno molte cose di lui, a parte le sigarette.

venerdì 24 luglio 2015

Winter on a solitary beach

Come i tanti teen-ager tatuati e spavaldi che le chiedevano adoranti l'autografo, anche noi l'abbiamo riconosciuta subito. Quella ragazza in bikini, pareo e piedi nudi sulla spiaggia affollata di Marina di Acate, la spiaggia che per otto mesi abbiamo guardato deserta e terrosa, è l'estate.

In piedi in riva al mare si spalma addosso crema solare rubata a un tramonto violaceo. Ogni tanto, con aria annoiata, guarda i figli che con paletta e secchiello effettuano il paziente travaso di ogni anno. Da una parte i turisti in arrivo, pantofole e seconde case, e dall'altro i lavoratori delle serre che vanno via contando i risparmi e le ernie, le borse e i giocattoli di seconda mano che porteranno ai parenti in patria.

Per chi le può ascoltare molte voci parlano di questo travaso: le serre che si scoperchiano senza svelare, tuttavia, il mistero dei braccianti, la nebbiolina che si alza dal mare e rende evanescente l'orizzonte del polo petrolchimico di Gela, le iridescenze degli oli che tralucono in superficie sul mare, i bambini tutti uguali e abbronzati, gli accenti dei bagnanti, il boato che viene dal mare, le luci nelle case, gli chalet in cui gli ultimi stranieri rimasti sono le ragazze dietro al bancone, l'odore di Coppertone in lotta disperata con quello delle fumarole. 

E ora che Marina di Acate ritorna agli italiani, Presidio è rimasto un luogo vuoto e afoso in cui gli armadi aperti, sbarazzati dei vestiti, sussurrano in loop "Estate" di Bruno Martino.

È tempo di sospendere la nostra navigazione sottovento. È tempo di portare il Berlingo alle cure di un accaldato carrozziere. È tempo, insomma, di ferie. Un ottimo espediente per dare governo al caos e tenerlo distante da noi per un paio di mesi.

Nel frattempo, se proprio non riuscite a trovarlo nei cinema all'aperto (e sarebbe un incredibile scandalo), potete poggiare il puntatore del mouse sul link al video di Marida Augusto e MaxHirzel sulle attività di Presidio che è stato girato a Marina di Acate e Castelvolturno. 

Da oggi anche questo blog va in ferie, magari recuperando (ma senza impegno) vecchie storie dei mesi trascorsi.

mercoledì 15 luglio 2015

Disperato, erotico, dummy


Ieri, ad esempio, aveva un vestito corto bianco con i fiori viola, che il vento le sollevava sulla cosce, fino a scoprirle il pube. I peli erano come li avevamo visti l'ultima volta, dipinti di verde. Ma l'ultima volta era del tutto nuda e quel richiamo agricolo ci si è presentato come un elemento che non abbiamo capito se perturbante o acconsenziente.

Tutti, o almeno tutti quelli che hanno interesse per le condizioni delle donne lavoratrici in agricoltura, dovrebbero andare a conoscere il manichino di via del Manichino. 
Non ha le braccia, riflesso di un riflesso sul fondo di una buia caverna della Venere di Milo, ma è il simbolo perfetto di un tipo di bracciantato che ripropone, ormai sotto la specie delle migrazioni, l'antica questione del meridione. 

Non parla, ma dice sulla situazione delle donne che lavorano nelle serre più delle inchieste e dei titoloni. È come se l'avessero messa lì a capro espiatorio di decine di ragazze, loro alter ego e, forse, maligna caricatura. Alle volte pensiamo che quella macchia di verde sia una pudica foglia di fico per questa Eva di materiale espanso non flessibile, altre volte ci pare che sia un osceno, primitivo, richiamo per istinti infoiati, per uomini innocenti con bisogni naturali. Valli a capire, gli essere umani.

Di certo lei è pronta a ricevere ordini, a essere spogliata, rivestita, spostata dalla cima del casolare al fianco della porta d'ingresso. Una volta ha accanto un pomodoro, un'altra volta le viene messo ai piedi uno pneumatico, un'altra ancora la trovate impalata accanto a un tavolo con sopra 8 bottiglie di vino vuote. E a noi sembra sempre che il Berlingo stia viaggiando dentro un rebus della Settimana Enigmistica, uno di quelli impossibili da risolvere, di cui oscuramente anche noi facciamo parte, con una immensa B o D che incombe sulla nostra testa ignara e nessuna donna inginocchiata a pregare un dio di cui ci sarebbe un gran bisogno.

Non è facile sostenere lo sguardo fisso del manichino di Via del Manichino. La sua nudità esibita e immobile su cui hanno passato un mano di fotosintesi clorofilliana. Le sue braccia amputate. La sua fusione di realtà e allegoria. Ti sembra sempre di rubarle qualcosa e, distogliendo lo sguardo, di riconoscerle una identità, di avere quasi capito come mai stia lì e su cosa voglia metterti in guardia con la sua boccuccia di plastica dura piegata a cuore. 
Che sia una casa d'appuntamenti, la presenza di uno psicotico, una idea di donna, un Maurizio Cattelan squattrinato e agricolo. Nulla, comunque, che mi lascia dormire sereno.

giovedì 2 luglio 2015

La busta paga di Adrian


La busta di paga di Adrian è un’agendina in pelle marrone con annotazioni a penna che si affollano fitte e sgrammaticate tra le righe. Nella colonna a sinistra, dal lunedì alla domenica compresa, si contano le giornate lavorative. In quella a destra gli acquisti effettuati dal proprietario del fondo presso cui Adrian lavora in nero e che vengono sottratti alla paga. La paga è di venticinque euro al giorno, nel caso di lavoro a mezza giornata dodici euro e cinquanta centesimi. Non tredici. Dodici e cinquanta. È un tipo preciso il datore di lavoro di Adrian e 6 il novembre sottrae dal compenso il pane, il 7 quindici euro di ricarica telefonica, il 12 ancora il pane e il costo di medicinali acquistati e consegnati a domicilio. La premurosa partita doppia dell’agendina in pelle marrone che Adrian conserva gelosamente è l’unica arma con cui gli operatori di Presidio stanno cercando di fargli ottenere il riconoscimento dei propri diritti, anche se incontrare Adrian non è facile. Vive, infatti, da segregato presso l’azienda per cui lavora e da cui non esce quasi mai. Nei fatti, oltre all’impegno in serra, svolge il ruolo di custode dell’azienda, ma questo incarico non risulta in nessuna colonna di dare e avere. È un tipo preciso il datore di lavoro di Adrian, ma solo quando conviene a lui. 

venerdì 19 giugno 2015

La legge della campagna

Esiste un punto impreciso, nelle campagne tra Vittoria e Scoglitti, dove per chilometri quadrati esistono solo serre e l’unico rumore che si sente quando si fa sera è un suono lugubre di vento che percuote la plastica e qualche cane che segnala, implacabile e lontana, la sua presenza.
In questo punto impreciso, raggiungibile a dorso di Berlingo e buona volontà, vive Tamara con i due suoi figli in età scolare. Nella foto sul passaporto Tamara è una ragazza piacevole, magra, con un’ombra di tristezza nel sorriso. Davanti a noi, nella casa che era stata un garage o un magazzino, Tamara è una mamma piacevole, magra, con un’ombra di tristezza nel sorriso. Ha iscritto i figli alle scuole elementari al suo arrivo, ad anno scolastico già iniziato. E dato che vive in un punto impreciso nelle campagne tra Vittoria e Scoglitti  ha scelto la scuola di Vittoria, senza sapere che la fermata dello scuolabus più vicina è quella per la scuola di Scoglitti.
L’unica soluzione possibile, poiché lei lavora già dall’alba, è che i due bambini percorrano da soli quasi tre chilometri per farsi trovare alle 7.30 alla fermata giusta. Oppure rivolgersi al servizio di trasporto abusivo che per 15 euro al giorno li accompagna a scuola. Non tutti i giorni, visto che il costo del passaggio è superiore alla metà del compenso giornaliero di Tamara. Ma alla scuola ci tiene, è importante, se non altro per consentire ai figli di incontrare ragazzi della loro età.
È questa la situazione che conosciamo quando Emiliano e Angelo rompono la monotonia di una sera di inizio primavera con la raucedine diesel del Berlingo. Portano giocattoli per i bimbi e notizie per una questione amministrativa di Tamara. Ne ricevono una inaspettata: “I bambini non vanno più a scuola. L’autista non vuole i soldi, ha detto che mi fa un favore”.
Nello sconcerto dei primi secondi si scava un tunnel un sospetto che non si fa in tempo a manifestare.
“I favori bisogna ricambiarli. È la legge della campagna.”
È il silenzio raggelato che segue una sentenza ingiusta quello che ci avvolge, una tristezza autentica da stazione. Poi il vento che insiste sulla plastica si porta via tutto e Tamara quasi consola noi e i figli: “Li iscrivo a settembre nella scuola giusta” dice tenace come la luna che sta spuntando e che domani, infatti, crescerà fino a diventare piena.

E mentre lasciamo i giocattoli e le notizie e mentre il caffè bollente preparato da Tamara eccita mucose e ricettori e nervi, ma non riscalda ci ripetiamo tornando in macchina: “la legge della campagna” e non sappiamo dire altro mentre in noi, in un punto impreciso tra lo stomaco e il cuore, qualcosa si è spezzato e fa male.

mercoledì 10 giugno 2015

La buona scuola

Abbassi, Buduru, El Barbir, Nacir, Taouil….
Non c’è alcun appello il giovedì pomeriggio a Marina di Acate, ma se l’insegnante lo chiamasse, suonerebbe più o meno così. Da circa quattro mesi, una volta a settimana, il Presidio mette a disposizione i proprio locali per una attività di alfabetizzazione alla lingua italiana proposta da una cooperativa locale. Ogni giovedì Veronica, che insegna italiano e parla arabo, aspetta i suoi 20 alunni maghrebini che tornano dalle serre e si siedono sulle sedie in plastica dura, intorno a due tavoli rotondi, per imparare la formazione del plurale, la coniugazione dei verbi, il manuale di conversazione per il bar o  per gli uffici comunali.
Sono lezioni che non mettono in palio la diaria di un corso di formazione, né i punti sul permesso di soggiorno e nemmeno un titolo di studio. I 20 alunni vengono perché vogliono imparare meglio la lingua italiana, tutt’al più per avere un diversivo nel mezzo della settimana lavorativa. Arrivano dopo il lavoro e dopo la doccia, vestiti come per un colloquio di lavoro, si portano la mano all’altezza del petto dopo avere stretto la tua, prendono dall’ultimo cassetto i quadernoni e infine si siedono, in un silenzio disciplinato, ad ascoltare l’insegnante per un paio d’ore. Trascorse le quali si attardano in capannelli per scambiare due chiacchiere, chiedere se si possono avere notizie per i permessi di soggiorno già in scadenza e non ancora consegnati, per dirci che quest’anno per il ramadan che coincide col solstizio sarà dura.
Ecco, sarebbe forte la tentazione di arruolare questi 20 alunni maghrebini nell’esercito della buona immigrazione e utilizzarli, come pallottole di mitragliatrice, nella ferocia delle contrapposizioni con cui si mantiene viva l’Italia di oggi, razzismo contro buonismo, povero contro povero, Salvini e papa Francesco.
Però io so, l’ho imparato a scuola, nello stesso giorno in cui spiegavano il gerundio, che quei 20 studenti rappresentano solo loro stessi, sono l’evidenza del loro percorso di vita individuale, perché individuali sono colpe e meriti e ciascuno di noi rappresenta se stesso e altro non è che una minuscola lettera nell'alfabeto della realtà.
Eppure, nella loro segregazione che hanno trasformato in separatezza dal contesto nazionale (un processo inconsapevole, ma di una efficacia incandescente), questi alunni che pronunciano le sillabe alla francese, che alzano la mano e aspettano il loro turno per parlare, che imparano avendo di fronte un Cuore di Gesù e una professoressa donna, un insegnamento ce lo forniscono.  Se la mafia, come diceva uno scrittore non molto lontano da questi luoghi, sarà vinta da un esercito di maestri elementari, forse l’odio alimentato da personaggi da due soldi, da posizioni che non cercano conciliazione, dall'inazione di governi, sarà vinto da un esercito di studenti elementari, anche se si chiamano , tra gli altri, Abbassi, Buduru, El Barbir, Nacir, Taouil.

venerdì 29 maggio 2015

Il nome della rosa

Il tragico sbarco del 22 settembre 2002 io non lo ricordo. Sarà stato l’abbaglio delle motovedette ferme a 200 metri dalla riva, sul mare di Lampedusa, ad ottobre del 2013. O forse la pena di vedere in foto tredici corpi allineati sulla spiaggia di Sampieri, nello stesso posto dove una volta andai con mia moglie, un’estate in cui aspettavamo il primo figlio. Ma il tragico sbarco del 22 settembre 2002 io non lo ricordo. 
Per questo, tutte le volte in cui ci fermiamo a prendere un gelato sul lungomare di Scoglitti, prima di iniziare il nostro pomeriggio presidiante, scendo i sette gradini che portano in spiaggia per dare un’occhiata alla lapide che ne fa memoria. Che dodici persone siano morte annegate in quello identico spazio dove mi trovo io, con la sola distanza imposta dal tempo, è qualcosa che mi dà sensazioni che non riesco mai a decifrare, tanto più nell’interminabile andirivieni del mare di fronte.
Così, quando un paio di martedì fa, risalendo le scale, ho trovato Emiliano, Angelo e le nostre due giovani volontarie impegnati a chiacchierare con due tunisini, apparsi all'improvviso e seduti a pochi passi dal Berlingo, mi ha colto come una impressione di fantasmagoria. Uno dei due mangiava un panino e aveva preso da un aiuola accanto, sopravvissuta a decine di bottiglie coi baffi Moretti, una rosa che teneva accanto a sé. L’altro se ne stava muto e in silenzio sarebbe rimasto per tutto il nostro incontro. 
I ragazzi avevano dato loro la nostra brochure in arabo ed è stato naturale seguire con il mio lo sguardo dell'uomo col panino: “Presidio difende il tuo diritto alla salute, al lavoro dignitoso, all’assistenza”. 
Al termine della lettura è me che guarda e a me chiede, come offeso da un destino irrevocabile e a noi inaccessibile: “Io stanotte ho dormito fuori, il padrone dove lavoravo mi ha cacciato. Come potete aiutarmi? Potevate fare qualcosa per me ieri sera? Tu stanotte dove hai dormito? ”

L'ultima domanda ha il sapore di un rimprovero e penso sarcastico: “Molto simpatico!”, ma dico: “No, non possiamo aiutarti per questo problema”.
Ma quella frase arrabbiata e il suo sguardo che, dopo essersi abbassato a leggere, non si chinerà orgogliosamente più, hanno come messo alla porta la dimensione del fare (quella che ammorba le promesse di centinaia di politici; roba da formiche, in fondo) e ha consentito l'ingresso della dimensione dello stare.
Non c’è nulla che possiamo fare per lui, questo è chiaro, ma continuiamo a parlare in una relazione che, a questo punto, è paritaria. L'uomo col panino e la rosa ci racconta che ha fatto il pescatore in Tunisia e poi a Pozzallo, che è stato a Mazara del Vallo, che ha lavorato per molti anni nelle serre, delle promesse ricevute e non mantenute dal suo datore di lavoro, dei litigi conseguenti. Sembra abbia vissuto più di una vita. 
Poi gira la testa verso il Mediterraneo e ci dice che è innamorato "dall'altra parte del mare" e si capisce che parla di una terra o di un paese, prima ancora che di una ragazza. Scherziamo su questo, sul fatto che ci vogliono i soldi per sposarsi. Una delle nostre volontarie gli chiede se quella rosa che ha accanto sia per la persona di cui è innamorato.
“Sì” risponde lui e con un gesto ottocentesco, di cui invidio la prontezza da Clark Gable, offre la rosa alla ragazza che gli ha posto la domanda. 
Penso per un attimo che dovremmo portare la rosa ai piedi della lapide, poi mi convinco che ha fatto meglio la volontaria, che ha ringraziato lusingata quell’uomo e il suo compagno muto, quell’uomo a cui non abbiamo chiesto nemmeno il nome, come d'altronde si fa coi fantasmi. 

venerdì 22 maggio 2015

La Houdini del Danubio

I leggings, come i bambini, non mentono mai. A Marina di Acate i leggings sono la divisa ufficiale delle donne rumene impiegate come braccianti agricole, una sorta di uniforme della brigata “Figli dei fiori” in un esercito anarchico e di ventura. Tania ne ha moltissimi, tutti aderenti come d’ordinanza e tutti colorati da uno stilista drogato, a esibire una gamma cromatica che farà impazzire i ricettori di milioni di afidi in serra e, negli esseri superiori, suggerirà varie fantasie nell’ultravioletto e almeno una, più maliziosa ed incerta, a luci infrarosse. Perché Tania è molto carina, anche se non ha nulla della donna rumena che popola l’immaginario degli italiani e, se passeggiasse per le vie di una grande città, con dei libri sottobraccio, potreste tranquillamente scambiarla per una studentessa di giurisprudenza al primo anno fuori corso.
Tania non è alta più di un metro e sessanta e ha lunghi capelli nerissimi che fanno da sipario a un fisico minuto ed esile che, tuttavia, non dà la minima impressione di fragilità. Sul suo viso da bambolina un giocattolaio malizioso, per vincere la routine, ha dipinto due occhi tagliati all’orientale e leggermente strabici, da piccola Venere di provincia.
Quando non fuma le sue sigarette Roma, parla in rumeno con le amiche e ride con noi e di noi dietro il salvacondotto di parole d’ordine che non conosciamo. Quando ride mostra una fila di denti simili a perline che luccicano agli occhi degli indigeni di questa terra promessa di carta carbone. Tania fuma molto e ride molto ed è certo che per quelle perline appena insidiate dal tabacco dareste in cambio il vostro oro. Ma da queste parti l’oro è verde e cresce in serra e in una serra Tania ha trovato chi le ha offerto impiego e fidanzamento. Entrambi in nero, ma con promessa, almeno per il secondo, di regolarizzazione futura.
Per mesi Tania ha lavorato in serra sei giorni e mezzo su sette, con uno stipendio da pensione minima e una pizza infrasettimanale col fidanzato ogni tanto, in attesa delle pratiche per il divorzio.
Ma le mogli, si sa, ne sanno una in più dell’ispettorato al lavoro e, scoperta la tresca, Tania non ha avuto nemmeno la possibilità di recuperare i suoi effetti personali e si è ritrovata immediatamente senza lavoro e casa, a ricostruire una volta di più ciò che la vita le ha mandato in frantumi.
Ma i suoi denti brillano e i leggings mandano iridescenze al 75% poliestere, 25% viscosa e Tania è molto carina e presto ha trovato lavoro in una nuova azienda, dove le sue mani tornano a guizzare tra i fili di nylon e i rami, come due pesciolini d’oro.
Un pomeriggio ci parla di questo nuovo impiego, dove viene trattata bene e non ha fidanzati. Accetta il passaggio di Emiliano e Angelo sul Berlingo per riportarla in azienda e farle risparmiare i 10 euro del taxi abusivo. La fine del viaggio è un cancello in ferro sbarrato e assicurato da un pesante lucchetto. Sono appena le 19 e, a quanto pare, è impossibile uscire o entrare, a meno che non si abbiano le chiavi.
“Hai le chiavi?” chiede, quindi, Angelo.

La risposta è una risata da uccello: “E secondo te ci lasciano le chiavi dell'azienda? Qui finito il lavoro si chiude, ma non è un problema.” 
E allo sguardo sbigottito dei ragazzi aggiunge un rapido: “Almeno per me” e il suo corpo da bambolina si insinua di profilo, Houdini del Danubio, nel punto più largo tra due sbarre, oltre la cancellata, oltre la nostra immaginazione, nel suo beato castigo da cui ci ringrazia per il passaggio e ci saluta come dal fondo di un pozzo scambiato per un’oasi, accendendosi l’ennesima sigaretta, sempre molto carina, la sua bellezza divenuta a intermittenza, tagliata a fette di 20 centimetri dietro le sbarre in metallo.


*sono grato a Gian Luca Bazzan per l'avvio di questa storia. La foto che accompagna il post è di Marida Augusto, fotogiornalista, artista, amica (anche in ordine inverso).

venerdì 15 maggio 2015

Avete raggiunto la vostra destinazione

Ai turisti che arrivano all’aeroporto di Comiso sembra quasi di atterrare ai bordi di un grande scudo metallico che il mare protende verso la terra, in una lotta di elementi mastodontica e accanita per dominare la forma altrui e imporre le propria. Nessuno dei viaggiatori, naturalmente, pensa a questo. Qualcuno rimane colpito dal grigio impenetrabile di quello scudo in basso e forse, ma a stento, mentre il velivolo lo sbalestra a quote sempre più basse, si  accorgere che il sole, assecondando i movimenti dell’aereo in atterraggio, luccica sullo scudo come un indiano in Ombre Rosse, quasi ad avvisare di qualcosa. Ma è tardi, sui tabelloni a terra è già apparsa la scritta landed, tutti i turisti hanno raggiunto la loro quota naturale e corrono via al Duomo di San Giorgio, alla casa sulla spiaggia del Commissario Montalbano, a Noto e nessuno si ricorda più della paurosa distesa delle serre viste dall’alto.
Ad altezza uomo, ad andarci in mezzo col Berlingo in dotazione a Presidio, le serre non incutono meno timore. A volte si subisce come una esperienza allucinatoria e sembrerebbe di vedere animarsi legno e plastica e incombere su di noi che, purtroppo o per fortuna, non siamo dei don Chisciotte e, quindi, proviamo a restare sobri e disciplinati al nostro lavoro. 

L’impressione di compattezza, lì in mezzo, si sfalda. Le serre sono attraversate da un sistema capillare di strade provinciali e comunali percorribili con difficoltà e non segnalate. Sono zone che non si ama ricordare e, quindi, nominare. Ma un orientamento a noi è necessario, un sistema di navigazione è obbligatorio. Ha cominciato per caso Angelo, il nostro google earth tascabile, e io ed Emiliano abbiamo adottato subito questa convenzione toponomastica deliziosamente marginale. Nei nostri giri, quindi, ci rechiamo in “Via di Gianpiero” dove Gianpiero è un italiano pelle e ossa, oltre che il primo connazionale incontrato. Oppure in "Via delle gebbie", per via degli enormi contenitori di raccolta per l'acqua incredibilmente trasformati in abitazioni.
In “Via del meccanico”, invece, viveva un tunisino che riparava le moto e le biciclette di tutti. Si è trasferito dopo pochi mesi, ma ormai il nome alla via era stato assegnato. In “Via delle bambine”, abbiamo incontrato due sorelline che ci hanno fatto festa e accompagnato a casa della madre che ci ha offerto un caffè caldo e amaro come la storia che portava con sé. E poi c’era la “Via dell’uomo biondo”, dove abbiamo fermato, scambiandolo per rumeno, un italiano brutale che si è abbassato i pantaloni davanti a noi per mostrarci un reticolo di tubi di drenaggio che gli uscivano dalle mutande a causa di un'operazione al basso ventre e bestemmiava i figli rimasti in Germania, le ernie, l’Italia, gli immigrati e dio.

Ora quella via si chiama via Esperia. Lo sappiamo perché lo hanno scritto i giornali. Qui quattro tunisini ubriachi hanno ucciso un rumeno a bastonate per poter violentare la sua donna.
A volte il nostro lavoro, ai margini delle serre, non è meno duro di quello che si svolge all'interno. 

Forse pensavamo a queste cose, a Gianpiero pelle e ossa, alle bambine senza padre, al rumeno con la testa fracassata, alla durezza di appartenere a un'umanità di cui c’è poco da essere fieri, in una fine giornata di grande stanchezza, persi nella nostra toponomastica fatta in casa. L’unico ad avere voglia di vantarsi era il sole che, al solito, faceva la ruota e fuochi d'artificio sul lungomare di Macconi. E proprio quando stava per lambire il mare, ha subìto l'affronto un'altra emozione circolare: sulle stufe in plastica dove crescono primizie, sulla discarica di flaconi di anticrittogamici, su un tetto di eternit e sopra il fil di ferro per stendere il bucato, vediamo balenare un cerchio di plastica colorato che, equatoriale, tramonta sulla mano di una bambina bionda che non riusciamo a vedere in viso, mentre il Berlingo passa sui fossi coi suoi inesorabili 35 Km all'ora. Quella volta, però, in quell'istante perfetto, ci siamo commossi tutti e tre, in “Via dell’hula hoop.”

venerdì 8 maggio 2015

Almanacco del giorno dopo

Oggi è l’otto maggio 2015, il sole sorge alle ore 5.53 a Verona e cinque minuti dopo, impiegatizio, sbriga la stessa pratica a Marina di Acate. La Chiesa festeggia san Vittore il Moro martire, un santo del III secolo D.C.  proveniente dal Marocco.
Anche Suphien proviene dal Marocco e aspetta questo otto maggio da almeno un paio di mesi.
Quando incontri Suphien, il primo gesto che ti viene spontaneo da compiere è quello di strizzare gli occhi e inforcare un paio di occhiali con lenti da 6 millimetri per poter dire: “Cristiano Ronaldo, che cazzo ci fai a Marina di Acate?”
Poi, invece, ti accorgi che Suphien rimane Suphien, con i suoi 19 anni e l'aspetto di una fotocopia di CR7, venuta scura e oblunga, con i due incisivi superiori coniglieschi e perennemente scoperti da un sorriso spavaldo e senza una qualsiasi spettacolare modella a fianco. 
Una vena in rilievo gli attraversa il bicipite, dove sembra solo mancare, a seguirne il corso, la scritta “tagliare qui”.

L’otto maggio  è il giorno in cui Suphien va a Verona per essere ascoltato dalla commissione per il riconoscimento dello status di rifugiato. E avrebbe proprio bisogno che San Vittore il Moro, per affinità cromatica, per patriottismo, per capriccio ("hai visto? fatti cristiano, fratello mio!) si adoperi nel suo dovere miracolistico che, a quanto si sente dire in giro, trascura da  un pezzo. Suphien è arrivato diversi mesi fa a Lampedusa ed è stato spedito a Verona come richiedente asilo, lui che vorrebbe solo lavorare e non ha storie di persecuzioni alle spalle.
A Verona ha lasciato le sue impronte sul vetro di uno scanner e se ne è tornato giù ai Macconi per lasciarle su quintali di melenzane, zucchine e pomodori cuore di bue. Poiché di leggi e regolamenti non ne sa nulla è contento di avere un permesso di soggiorno. Il fatto che non sia valido per attività lavorative, qui, è un dettaglio da nulla. Per questo Suphien ride sempre. Lui ha il permesso di soggiorno. Angelo, con pazienza, ha provato a spiegargli che dovrebbe prepararsi qualcosa da dire in commissione, che altrimenti non ha possibilità, che dovrebbe pensare a cosa fare dopo, che quelli che lo ascolteranno (ci sarà tra loro uno che somiglia a Lionel Messi?) sono più forti della sua storia di giovane avventuriero.

Suphien ride e non capisce e fa il segno di vittoria alzando le due dita e dice in arabo di stare tranquilli, che lui ha il permesso di soggiorno e che vuole solo dei vestiti usati e un selfie con noi operatori.
Poi, sempre ridendo, si intrufola nel magazzino saltando la fila (ha un permesso di soggiorno, che diamine!), e la sua vena “tagliare qui” si gonfia quando infila le mani tra i calzini usati e le tira fuori lasciando scorrere la biancheria tra le dita come fossero dobloni, tappeti di Bukara le coperte acquistate da Decathlon.
Visto che non si decide e che i vestiti devono bastare per tutti, gli dico di scegliere solo un capo di vestiario e devo prenderlo per le spalle per accompagnarlo fuori. Dopo 10 minuti è di nuovo in magazzino con una finta delle sue, lasciandomi rassegnato come un terzino dell'Atalanta. Ne uscirà con le mani piene alla rinfusa di camicie rosse, pantaloni blu, tute gialle che pare un facchino impegnato nell'allestimento di una mostra di quadri astratti.

Al tramonto del sole (20.32 a Verona, 19.58 ad Acate) è probabile che Suphien abbia ricevuto un diniego dalla commissione che esamina la sua incongrua domanda di asilo politico.

Riceverà una pacca sulle spalle e l'invito, convinto come la sua richiesta di protezione, a lasciare il territorio nazionale. Uno dei prossimi martedì pomeriggi tornerà al Presidio per dirci che continua a lavorare in una serra.  L’otto maggio gli hanno tolto il permesso di soggiorno di cui si faceva vanto, in poche ore. Tuttavia sorriderà. Per togliergli i venti anni ci vorrà un po’ di più.

domenica 3 maggio 2015

Il puma di Botosani

Il cappellino lo riconosco. È uno di quelli che Jovanotti ha donato alla Caritas a inizio anni ’90 durante un cambio di stagione o di genere. Da Claudio Ceccheto alla Chiesa di Che Guevara, che tanto, da queste parti, nessuno sa chi siano e l'unica Chiesa nei dintorni la usiamo noi per il Presidio. Il nuovo proprietario del cappellino si chiama Gheorghe, viene dai Carpazi e porta la visiera correttamente sul davanti per ripararsi dai 35 gradi in aprile delle serre dei Macconi (questo è l’ombelico del mondo e noi che non sappiamo ballare, ci versiamo dentro un po’ di te liofilizzato, ogni martedì pomeriggio).
Pochi centimetri più in basso della visiera, sotto il tetto spiovente di due sopracciglia foltissime, Gheorge ha due occhi del colore ai bordi di certe maioliche di Bretagna. O delle piastrelle della cucina di una casa a Donnalucata che mio nonno vendette troppo presto e che a voi non direbbero niente. E sono due veri peccati.
Quando Ghoerghe mi chiede di uscire fuori, a due passi dal lungo mare e dal poco altro della sede di Presidio, penso mi voglia raccontare la solita storia di giornate non pagate, di lavoro in nero, di dolori alla bocca dello stomaco.
Mi dice, invece, che la notte non dorme per comporre canzoni (la percentuale di insonni creativi è un affronto per noi che la prima volta in cui Morfeo ci prese tra le braccia, gli afferrammo una mano e ci accordammo in un patto, fingendo di credere che serva a dilazionare, in pigiama mimetico, scadenze da tenere lontane). Gheorghe, invece, non dorme. Non dorme e compone canzoni. 
"In italiano" mi dice come fosse la cosa più naturale del mondo. 
"Non ci credo" lo sfido.
“Accendi il telefonino” raccoglie e rilancia.
Il mio:“Sono pronto” lo inquadra nei millemila pixel dello smartphone.

Ghoerghe canta con l’espressione che hanno certi imitatori scarsi di Celentano e con le mani dirige un’orchestra immaginaria, appoggiandosi a una melodia uniforme e fasulla da antifona al Magnificat (e l’ora, in effetti, è quella dei Vespri).
Nella canzone c’è una donna che prepara il caffè, un mare in cui si tuffano due fratelli e da cui ne emerge solo uno, una tavola apparecchiata, un posto vuoto e bambini che si curvano su di esso, come punti interrogativi. Conosco gente che con roba così ci ha vinto Sanremo e da qualche parte, dietro a noi, una serra coi fiori ci sarà sicuramente.
Ghoerghe si interrompe all’improvviso distogliendo gli occhi dalla camera per guardarsi a fianco, come se un fulmine avesse incenerito il secondo violino, in un fuoco di artificio di archetti in fiamme e fili che si aggrovigliano. Poi dice un “Basta” che non capisco se è una supplica per la sua commozione che viene dall’abitudine a pubblici vegetali, o se è una risposta a un malumore, come di chi ha dato troppo a un loggione di incompetenti. 
Ora rivolge il suo sguardo da carta carbone, da concorrenza sleale, al Mediterraneo e ripete “Basta” allontanandosi con un passo laterale sull’improvvisato palco del secondo scalino del Presidio.

Intorno a noi, come sempre, la scena è aperta e io, di necessità, applaudo.